E’ scritto negli occhi di chi ha abbandonato la propria casa, il luogo in cui è nato, la famiglia, le cose care.

 

Come non leggerlo, quello sguardo, quando ci arriva da un telegiornale distratto, o lo cogliamo per caso nell’immagine di un reporter? Quella voglia, testarda oltre la sofferenza, di credere in una possibilità. La speranza, al di là della paura e della solitudine, di poter essere felici. E noi lo conosciamo bene quello sguardo. Era nei nostri scialli sul capo, nelle nostre mani dure di calli, noi che giungevamo in una terra sconosciuta e carica di promesse. Perché ognuno di loro siamo noi, da sempre e per sempre nella storia dell’umanità.

 

Ho trascorso una settimana a Linosa qualche anno fa e ho visto un barcone incastrato nella roccia rossa di quel piccolo angolo di paradiso fuori dal mondo, dove la vita arriva attutita dal vento e la frenesia delle nostre giornate non esiste affatto. Ho immaginato che un ragazzino di Linosa, Torè, possedesse lo sguardo in cui fare specchiare quello di ogni essere umano alla ricerca di un abbraccio e di una nuova casa. A Torè sfuggono le regole del mondo, non comprende il senso dei confini, dalla sua isola vede solo cielo e mare, ed è facile immaginare a suo modo tutto il resto. In fondo, la Tv potrebbe essersi inventata ogni cosa e le immagini che rimanda, magari sono solo dei film...

 

Un nubifragio porta sull’isola 400 migranti, tanti quanti gli abitanti di Linosa e, durante i giorni di mare mosso, fino a che non potrà attraccare il traghetto, tutte le persone sull’isola vivranno insieme, in ogni casa si allargheranno le famiglie, trasformando il minuscolo lembo di terra in un universo metà bianco e metà nero, immerso in una natura che trabocca di colori.

 

A raccontarcelo, quest’universo perfetto, sarà proprio Torè. E proverà a convincerci che l’amore sia “la cosa più forte del mondo” e che duri per “semprissimo”, e se questa parola non esiste, chi se ne frega!

 

In fondo, chi decide le parole che possono stare nei vocabolari?

 

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Ti proponiamo intanto un breve estratto di questo splendido e delicato racconto. Da Metà bianchi metà neri, di Valentina Gebbia:

 

 «Io ho un nome molto strano, mi chiamo Vercingetorige, perché a papà quando sono nato è saltato il ghiribizzo, come dice la mamma. Però tutti mi chiamano Torè. Dal giorno dello scompiglio, comunque, ho capito che non ci sono nomi strani, ci sono nomi e basta. Infatti, anche se qua a Linosa molti si chiamano Giuseppe, Franco, Salvatore, Maria e questi nomi qua, da altre parti non è così. Infatti è impossibile che anche al papà di Ahmed e Fatima e di tutti gli altri sia saltato il ghiribizzo. Il papà di Ahmed e Fatima lavora a Londra, e loro hanno fatto questo lungo viaggio per raggiungerlo. Meno male che mio padre fa solo piccoli viaggi in mare per pescare e non va mai via da Linosa! A scuola io non sono per niente un tipo tranquillo. Rido e mi distraggo spesso, così i professori gridano sempre: Torè, Torè!!! Tanto che certe volte vorrei cambiare nome per non sentirlo più. Adesso, invece, nessuno fa caso a me. Mi piace molto, perché sembra come quando si prepara la festa di Stella Maris, sono tutti così indaffarati che non pensano a rimproverarmi. Ci sono più persone per strada che nel mese di agosto e nessuno sta mai con le mani in mano. È bello guardarsi intorno, ho la sensazione di vivere dentro l’arcobaleno, perché tutti i colori si sono dati appuntamento qui.»

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